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14 ottobre 2006

Commenti

Antonio

Uno dei tanti casi in cui il G.A. (in particolare, il Consiglio di Stato) si erge a tutore "primario" degli interessi dell'Amm.ne è nella materia dei pubblici concorsi.
E' un dato ormai costante che, per evitare di dover annullare intere prove concorsuali o per non aggravare troppo il lavoro dei commissari, si ritiene sufficiente la valutazione numerica senza alcuna motivazione che giustifichi la stessa. Ci si appiglia, tra l'altro, alla natura di giudizio dell'attività prestata che si afferma non rientrare nell'ambito di operatività dell'art. 3 legge 241/1990 (che, al contrario, espressamente menziona i concorsi).
Come giustamente ha detto il Prof. Pietro Virga in uno scritto leggibile su questa rivista, il destinatario della valutazioone non sarà mai in grado di capire il motivo della sua bocciatura e i criteri usati dalla Commissione non saranno mai passibili di valutazione.
In questo caso l'apparente interesse legittimo crea l'illusione di tutela nel cittadino che in realtà si trova di fronte ad atti puramente arbitrari.
Forse, viste tali premesse, sarebbe più serio eliminare il G.A. e tornare al periodo in cui si poteva agire per la difesa dei propri diritti civili e politici.
In effetti non si vede la necessità di rafforzare ulteriormente la posizione della P.A. che è già abbastanza forte di suo.

Leonardo Spagnoletti

E' impossibile, più che difficile, non concordare col prof. Virga in ordine all'esigenza di eliminare ogni residua scoria di "oggettivismo" dal giudizio amministrativo, valorizzandone sino in fondo la natura di processo di (e tra) parti, rispetto al quale il giudice amministrativo non è (più) il giudice della (per la) amministrazione, ma il giudice della funzione amministrativa o del potere amministrativo nel conflitto con interessi e diritti dei cittadini.

Se così non fosse, il dettato costituzionale dell'art. 111 come novellato dalla legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999 rimarrebbe lettera morta (e forse non è sbagliato rammentare che l'art. 111 commi primo e secondo dispone che: "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.

Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.").

Ma a ben guardare già l'art. 103 della Costituzione chiarisce che Consiglio di Stato e altri organi di giustizia amministrativa (cioé i T.A.R.) hanno giurisdizione "...per la tutela nei confronti della Pubblica Amministrazione".

Perché, allora, la concezione del giudizio amministrativo quale espressivo di una giurisdizione di diritto obiettivo tarda a tramontare?

Al di là delle origini storiche della giustizia amministrativa, rimangono nodi ordinamentali irrisolti, e tra di essi sono centrali quello della commistione di funzioni consultive (estese anche a taluni atti normativi) e giurisdizionali in capo al Consiglio di Stato, organo di vertice della giurisdizione amministrativa, e la tradizione "vivente" di inesausta contiguità tra consiglieri di Stato e governo, attraverso la presenza nei gabinetti ed uffici legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri.

Risolvere e sciogliere questo nodo (il tentativo della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali fallì proprio sul terreno dei principi costituzionali della giurisdizione) dovrebbe essere imprescindibile per un Governo, per altri aspetti, così attento ad assicurare al giudice (ordinario) una "terzietà" al di sopra di ogni sospetto, se non con la franca separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, con un maxiemendamento che circonda di concorsi, spostamenti di sede, limiti minimi di legittimazione, il passaggio tra funzioni requirenti e giudicanti; ma poi così poco attento alla terzietà del giudice amministrativo da obliterare i principi contenuti in una legge dello Stato (che individuava nell'obiettivo programmatico dell'unificazione dei ruoli della magistratura amministrativa, con tutte le ricadute ordinamentali che esso comportava, uno strumento per un riassetto effettivo e non transitorio, atteso da decenni, almeno da quando la solitaria "signoria" del Consiglio di Stato -di certo non contrastata dalle Giunte provinciali amministrative- ha dovuto cedere il passo all'attuazione dell'art. 125 della Costituzione, con l'istituzione dei T.A.R.).

E invece no, perché un'appendice del maxiemendamento, dietro la foglia di fico della meritocrazia, pretende di modificare gli equilibri faticosamente raggiunti con la legge n. 186 del 1982, modificando le quote di accesso per anzianità al Consiglio di Stato a vantaggio di quelle riservate al concorso diretto.
Insomma, qui, come per i giudici ordinari, nulla conta l'esperienza "sul campo", la professionalità dimostrata, e valutata sulla base della produttività e della qualità del lavoro giurisdizionale, oltre che dell'esperienza e dell'equilibrio desumibili dal concreto esercizio della funzione, mentre assume rilievo preponderante quella del tutto presunta che dovrebbe desumersi da una preparazione teorica (e quindi libresca) o dalla quantità e qualità di lavori scientifici e parascientifici che attengono semmai al profilo della cultura giuridica generale e specifica ma di per sé non dimostrano l'idoneità allo svolgimento di delicate funzioni giurisdizionali, ma semmai l'attitudine a ruoli di consulenza istituzionale e personale.

Non si tratta di piccole "beghe" interne all'eterno "conflitto di classe" tra magistrati dei T.A.R. e consiglieri di Stato, ma di un approccio ai problemi della giurisdizione amministrativa dimentico di quelli strategici (come coniugarne la dimensione di giustizia "di massa" con la peculiare "qualità" e il rilievo "strategico" delle sue sentenze) e attento invece, una volta di più, a microinteressi corporativi (che riguardano una componente largamente minoritaria della categoria), miope, del tutto insensibile al problema della costruzione di un ordinamento della giurisdizione amministrativa all'altezza dei tempi, del principio costituzionale del giusto processo, delle "sfide" di un'amministrazione in continua evoluzione nel mondo "glocalizzato" in cui la funzione giurisdizionale amministrativa deve misurarsi, come ho scritto in altra sede, col duplice processo "ascendente" e "discendente" della sovranità e del potere amministrativo, tra dimensione comunitaria e dimensione del regionalismo rafforzato (o se si ritiene del federalismo).

Se poi questi conati corporativi, attenti solo agli equilibri interni al Consiglio di Stato, alla eternizzazione della supremazia dei consiglieri da concorso, e tra di essi dell'elite (pensante davvero?!?)che ne costituisce la "mente" "politica", trovano attenzione e sponda in un Governo una volta di più "assistito" da tanti e troppi consiglieri interessati e reso perciò a sua volta miope, non pare che quella trasformazione evocata dal prof. Virga possa avere corso effettivo e che il giudice amministrativo possa diventare qualcosa di più e di altro che il giudice della (per la) amministrazione, con buona pace dei principi costituzionali, e sopratutto degli interessi del Paese (o con espressione più moderna della società civile).

Leonardo Spagnoletti

Roberto Ollari

Il giudice non deve preoccuparsi dell'interesse pubblico, se non quando una legge gli impone di valutarlo con particolare attenzione in certi campi (si vedano le norme sulla concessione delle "sospensive" nei lavori pubblici relativi alle c.d. opere di interesse strategico).

Mi sembra, invece, scandaloso questo argomentare tipicamente italiano, in cui ci si inventa un "balocco" (l'interesse legittimo), magari in un momento in cui il balocco è necessario, ma poi, quando si cresce, ci si continua a trastullare. Fuor di metafora, l'interesse legittimo continua ad essere un fattore dirompente, specie in materia di giurisdizione.

Sono un avvocato e le mie vittorie più grandi le ho ottenute con il difetto di giurisdizione.

Da cittadino, però, fatico a comprendere perchè dopo 10 anni di causa si debba arrivare a concludere, con argomentazioni sofistiche, che il giudice adito non aveva giurisdizione.

Sottolineo, ad esempio, la sentenza del Tar Lazio sez. I bis del 19.2.20003 (si Italia Oggi del 13.3.2003) in cui grazie ad argomentazioni sull'interesse legittimo, si sposta la giurisdizione dal giudice amministrativo al giudice ordinario in materia di oepre pubbliche. Ritengo utile percorrere con coraggio la distinzione per blocchi di materie dando al giudice amministrativo, la decisione sull'intero blocco, a prescindere dall'esistenza di interessi o diritti.

Si otterrà anche una maggiore specializzazioine e sensibilità del giudice, che tratta dalla nascita alla morte un certo rapporto giuridico. Ritengo che le distinzionee tra interessi e diritti debba essere fatta solo dal legislatore, che nel formulare la norma in in certo modo abbia chiaramente scritto a chi spetta la giurisdizione, oppure se l'interesse pubblico abbia un peso maggiore, in determinati casi.

Parma,13.3.2003

Roberto Ollari

Nino Paolantonio

Concordo con l'opinione di Giovanni Virga, soprattutto quando si riferisce alla c.d. "dequotazione" dei vizi formali da parte di un certo orientamento giurisprduenziale.

In tal senso mi pare debba indurre ad una approfondita riflessione la previsione di cui all'art. 4, comma 2°, del d.d.l. di riforma della l. 241/90 ove prevede che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, quando il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato". Com'è noto, il contenuto del provvedimento è dato dalla sua parte dispositiva, che rappresenta la manifestazione tangibile della potestà decisionale dell'amministrazione.

Affidare al Giudice amministrativo il compito di verificare se altro avrebbe potuto essere il contenuto del provvedimento equivale, a mio avviso, ad affidare al Magistrato un compito che esorbita di gran lunga dai limiti del sindacato ordinario di legittimità, commettendoglisi, in sostanza, di valutare la sussistenza e la praticabilità di alternative decisionali ulteriori: di intrudersi, cioè, nella pate più intima della valutazione discrezionale.

L'escludere l'annullabilità del provvedimento in tali casi, poi, limita ingiustamente i diritti dei cittadini in punto di pretesa al risarcimento dei danni, che ben possono essere stati arrecati da un provvedimento formalmente illegittimo, e che quindi debbono a buon diritto essere qualificati anch'essi come ingiusti, e quindi pienamente risarcibili.

L'art. 2043 c.c. non distingue tra ingiustizia formale e sostanziale, e la previsione del d.d.l. mi pare tenda ad introdurre una franchigia in favore dell'amministrazione pubblica difficilmente giustificabile, sia in punto di razionalità che di parità di trattamento di medesime situazioni giuridiche soggettive.

Stefano Tarullo

La tematica del "giusto processo", opportunamente toccata da L. Spagnoletti, chiama in causa il giudice amministrativo sotto molteplici profili; segnatamente sotto il profilo dell'armamentario istruttorio (si pensi che la testimonianza è oggi ipotizzabile soltanto nella giurisdizone esclusiva, e comunque è assai raramente chiesta ed ammessa: ma quanto sarebbe utile la testimonianza in giudizio del responsabile del procedimento?) e sotto il profilo organizzativo (aumento degli organici finalizzato ad assicurare la "ragionevole durata" del processo; netta cesura tra funzione consultiva e funzione giurisdizionale; limiti alla permanenza dei magistrati presso un medesimo TAR; rivisitazione definitiva della regola afferente alla nomina governativa dei consiglieri di Stato in funzione della c.d. unicità di accesso).

Anche i poteri decisori del giudice attendono una più limpida definizione dopo la legge 205/2000 (penso soprattutto all'istituto della reintegrazione in forma specifica, che deve trovare un non agevole punto di saldatura con l'esigenza di rispetto del potere discrezionale; ed ovviamente alla regola della pregiudizialità tra annullamento dell'atto e risarcimento del danno, che rischia talora di essere eretta a baluardo dei vecchi privilegi amministrativi coperti dalla "convalescenza" del provvedimento non impugnato).

Si tratta di problemi di indubbia gravità, a tutti noti, rispetto ai quali il legislatore non sembra aver adottato una organica visione riformista. E molti altri se ne potrebbero menzionare.

Mi pare tuttavia che nell'insieme, considerato il difficile periodo di transizione in cui il plesso giurisdizionale amministrativo si trova oggi ad operare, ad esso non possa muoversi il rimprovero di abdicare al proprio compito di tutela del cittadino.

Di fronte alle istanze degli avvocati, che chiedono loro - a volte smaccatamente - di "amministrare", ed alle resistenze degli apparati pubblici, che viceversa da loro pretendono atteggiamenti di self-restraint, i (pochi) giudici amministrativi rivestono un ruolo delicato, che postula equilibrio soprattutto quando le regole processuali non sono chiare; piuttosto, mi sembra che il coraggio faccia difetto al legislatore, visibilmente restio a ripudiare quell'approccio "oggettivistico" che a tratti ancora affiora dalle maglie della normativa e della pratica processuale.

Massimo Perin

Colgo l'occasione di questo dibattito per esprimere qualche perplessità sul reclutamento degli uditori giudiziari per i Tribunali amministrativi regionali, così come indicato dal Prof. Virga. Personalmente ritengo che l'attuale forma di reclutamento (concorso di 2^ grado), quasi identica a quella per magistrato della Corte dei Conti e ad Avvocato dello Stato, cui possono partecipare funzionari direttivi della p.a., magistrati ordinari, avvocati del libero foro, sia sufficiente a garantire un valido serbatoio di aspiranti alle funzioni di giudice amministrativo. Il problema, semmai, dello scarso reclutamento di magistrati amministrativi negli ultimi concorsi andrebbe cercato altrove. Infatti, sulla rivista, leggendo il discorso di apertura dell'anno giudiziario del Tar Puglia, emergono dei dubbi sui criteri di correzione delle prove do concorso, visto che il Presidente di quel Tar non riesce a comprendere come sia possibile che candidati (magistrati ordinari, avvocati e funzionari con anni di esperienza)non riescono a superare le prove scritte. A volte leggendo i temi assegnati ai concorsi mi viene il dubbio che anche il famoso enigmista Bartezzaghi non sarebbe riuscito a fare di meglio!
Probabilmente la radice del problema, anche se personalmente non appartengo alla magistratuta amministrativa, vada ricercata, come ben messo in evidenza da Spagnoletti, nel fatto che i Tar e il Consiglio di Stato sono due organismi distinti e separati nelle carriere, negli stipendi etc...
Probabilmente la soluzione di creare un'unica magistratura amministrativa di I e di II grado, risolverebbe i problemi segnalati dal Prof. Virga, ma questo appartiene alla politica, dove, spesso, il buon senso non trova ascolto.

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