Durante un recente convegno di diritto amministrativo ho sentito sostenere da un relatore (o meglio, da un discussant, per usare il francesismo presente nel programma ufficiale del convegno), che il Giudice amministrativo sarebbe ormai il tutore dell’interesse pubblico e che, dopo il trasferimento delle controversie in materia di pubblico impiego al Giudice ordinario, anche quest’ultimo, per la parte ad esso assegnata, sarebbe chiamato ad assolvere la medesima funzione.
Si tratta di una opinione che sommessamente non condivido e che mi preoccupa, tenuto conto non solo del fatto che essa era sostenuta nella specie da un magistrato amministrativo, ma che non costituisce purtroppo una opinione isolata.
Quando ho sentito esporre tale tesi ed un mio collega, presente allo stesso convegno, mi ha chiesto di esprimere una opinione in merito, l’ho commentata con una battuta; ho detto: in passato molti avevano sostenuto che nel processo amministrativo fosse necessaria la presenza di un P.M. per tutelare l’interesse pubblico; non essendoci riusciti, forse oggi vogliono trasformare il Giudice in P.M.
L’argomento, mi rendo conto, è estremamente serio e troppo delicato per essere liquidato con un semplice battuta e meriterebbe degli approfondimenti che certamente esulano dai limiti del presente weblog.
Tuttavia qualche riflessione fa pur fatta, anche per confutare l’assunto in parola, il quale mi sembra estremamente pericoloso per le conseguenze alle quali può dar luogo.
A tal fine partirei da un editoriale di Ernesto Galli della Loggia, pubblicato sul Corriere della Sera di qualche giorno addietro, nel quale, pur trattandosi di argomento del tutto differente (l’autorità morale delle decisioni del Consiglio di sicurezza dell’O.N.U. e la recente tendenza di rimettere le decisioni internazionali ad organi apparentemente tecnici), si ricordava, tra l’altro, che, nel campo giuridico, le decisioni possono essere considerate neutre ed imparziali solo se chi le emette è soggetto terzo dotato di imparzialita (e tale non è certamente, constatava Galli della Loggia, il Consiglio di sicurezza dell’O.N.U., formato da rappresentanti di Nazioni che, rispetto alle decisioni da adottare, non sono certo nè terzi nè imparziali).
L’imparzialità del giudice e la sua situazione di terzietà rispetto alla controversia è, senza voler scomodare nè Calamandrei nè Chiovenda, il tratto caratteristico della funzione giudicante, che la distingue dall’esercizio di altre funzioni.
Anche l’Amministrazione pubblica deve (o meglio dovrebbe) essere imparziale, così come prescritto dall’art. 97 Cost., ma essa non è terza, ma è parte della questione affrontata e persegue un proprio interesse, anche se pubblico (v. in proposito le indimenticabili pagine del libro di Allegretti sull'imparzialità amministrativa).
Il Giudice amministrativo è (o meglio dovrebbe essere) non solo imparziale, ma anche terzo rispetto alla contesa presa in esame; in altri termini, egli deve essere meglio della moglie di Cesare: non solo al di sopra di ogni sospetto, ma anche di nessuno, non dovendosi concedere nemmeno a Cesare.
Il G.A., in particolare, non può darsi carico dell’interesse pubblico (della cui tutela si occupa e si preoccupa la P.A.), nè deve, come quest’ultima (qui ricordo M.S. Giannini, oltre che E. Cardi), procedere ad un raffronto tra l’interesse pubblico primario e gli altri interessi secondari coinvolti, siano essi di natura pubblica o privata.
Egli, molto più semplicemente, deve decidere una contesa tra un privato ricorrente ed una P.A (ma non sempre, dato che in una amministrazione policentrica, qual è l’attuale, può assumere le vesti di ricorrente anche una delle tante amministrazioni pubbliche); non deve preoccuparsi di individuare quale sia l’interesse pubblico, se non correndo inevitabilmente il rischio di trasformarsi in Amministrazione e comunque di perdere la propria posizione di terzietà, che è il tratto caratteristico del Giudice.
A parte il fatto che, come appena ricordato, non è raro nè infrequente assistere ormai a controversie nelle quali vi sono due ammininistrazioni pubbliche l’una contro l’altra armata (onde, in tali ipotesi, non si vede a quale interesse pubblico il Giudice amministrativo dovrebbe dare la prevalenza), rimane la circostanza che nella maggior parte dei casi, innanzi al G.A., la controversia è solitamente introdotta da un privato; la prevalenza o comunque la tutela dell’interesse pubblico che il G.A. dovrebbe fornire, secondo la tesi confutata, porrebbe il privato in una situazione di chiara inferiorità.
Tutto probabilmente dipende dal carattere ambiguo e ancora del tutto non univoco della posizione giuridica azionata innanzi al G.A. e cioè dell’interesse legittimo, il quale è ancora da ritenere una nebulosa del firmamento giuridico italiano, al punto che M. Nigro, in uno dei Suoi ultimi scritti, si chiedeva e ci chiedeva provocatoriamente: ma che cos'è questo interesse legittimo?
Pur non volendosi addentrare in un argomento ancor più vasto, qual è la definizione dell’interesse legittimo e volendosi invece fermare ad alcune statuizioni sulle quali vi è ormai, sia in dottrina che in giurisprudenza, concordia (v. per tutti la monografia di F.G. Scoca sull'interesse legittimo), è sufficiente in proposito notare che è ormai da ripudiare la teoria dell’interesse legittimo come interesse indirettamente protetto e che comunque, ammesso per un attimo che si debba verificare se vi sia coincidenza tra l’interesse pubblico e l’interesse privato azionato, che viene in tal modo - sia pur in modo indiretto o riflesso - tutelato, tale verifica è stata effettuata ex ante dal legislatore e non spetta di certo al giudice.
In altri termini, è nello stesso momento in cui il legislatore pone determinate regole di condotta per la P.A. e comunque quest’ultime sono desumibili in via interpretativa dalle norme presenti nell’ordinamento (si pensi ad es. alla figura dell’eccesso di potere per disparità di trattamento, desumibile dal principio generale posto dall’art. 97 Cost.), che l’interesse legittimo nasce e viene riconosciuto. Il Giudice amministrativo non ha che da prendere atto del riconoscimento di tale posizione di vantaggio in capo ad un soggetto, senza preoccuparsi se la posizione di vantaggio stessa, riconosciuta in astratto, corrisponda in concreto all’interesse pubblico.
Argomentando diversamente e portando la tesi contestata alle sue estreme conseguenze, dovrebbe ritenersi che la lesione dell’interesse legittimo possa dare luogo all’annullamento dell’atto amministrativo solo in quanto corrisponda all’interesse pubblico (o, meglio, a quell’interesse pubblico che il G.A. è chiamato ad individuare). Il che darebbe luogo a risultati assurdi ed incogrui e finirebbe per eliminare, con un semplice tratto di penna, gran parte degli interessi legittimi ed in particolare quegli interessi legittimi c.d. formali che, quantunque non ancora del tutto riconosciuti ufficialmente dalla dottrina "dominante", costituiscono il nucleo fondamentale sul quale si è originariamente formato il sistema di giustizia amministrativa (una specie di pangea del diritto pubblico).
Si pensi ad es. ad un tipico caso di lesione di interesse formale, qual è il mancato avviso di inizio del procedimento all’interessato, previsto dalle norme contenute nel Capo III della L. n. 241/90.
Ove dovesse ritenersi che il Giudice amministrativo è il tutore dell’interesse pubblico, dovrebbe consequenzialmente ritenersi anche che egli, ove si renda conto che l’omissione dell’avviso in parola dà luogo ad una annullamento di un provvedimento amministrativo di grande rilevanza ed a conseguenze del tutto contrarie all’interesse pubblico (annullamento di un complesso procedimento e magari risarcimento del danno che comporterà un certo esborso per la P.A.), dovrebbe in tutti i modi rifiutarsi di annullare l’atto finale, contrario a così rilevanti interessi pubblici.
E’ forse in quest’ottica che può spiegarsi il progressivo svuotamento delle formalità garantistiche previste dalla L. n. 241/90 ad opera di una parte della giurisprudenza. In una prospettiva di Giudice amministrativo tutore dell’interesse pubblico, tali formalità appaiono infatti del tutto recessive rispetto all’interesse pubblico a che sia mantenuto in piedi tutto un procedimento ed il provvedimento finale (costituito, ad es. da un provvedimento ablativo).
Ma in questo modo il Giudice amministrativo, che giustamente da sempre ha avuto la fobia di apparentarsi con la P.A. (al punto di inventare, nel giudizio di ottemperanza, un commissario ad acta che costituisce la sua longa manus: sottolineo il “longa”), finisce forse inconsapevolmente, ma altrettanto inevitabilmente, per sostituirsi ad essa e per perdere definitivamente la sua posizione di terzietà. Con quali conseguenze per gli interessi legittimi dei semplici cittadini, è purtroppo facile immaginare.
Giovanni Virga, 12.3.2003.
Uno dei tanti casi in cui il G.A. (in particolare, il Consiglio di Stato) si erge a tutore "primario" degli interessi dell'Amm.ne è nella materia dei pubblici concorsi.
E' un dato ormai costante che, per evitare di dover annullare intere prove concorsuali o per non aggravare troppo il lavoro dei commissari, si ritiene sufficiente la valutazione numerica senza alcuna motivazione che giustifichi la stessa. Ci si appiglia, tra l'altro, alla natura di giudizio dell'attività prestata che si afferma non rientrare nell'ambito di operatività dell'art. 3 legge 241/1990 (che, al contrario, espressamente menziona i concorsi).
Come giustamente ha detto il Prof. Pietro Virga in uno scritto leggibile su questa rivista, il destinatario della valutazioone non sarà mai in grado di capire il motivo della sua bocciatura e i criteri usati dalla Commissione non saranno mai passibili di valutazione.
In questo caso l'apparente interesse legittimo crea l'illusione di tutela nel cittadino che in realtà si trova di fronte ad atti puramente arbitrari.
Forse, viste tali premesse, sarebbe più serio eliminare il G.A. e tornare al periodo in cui si poteva agire per la difesa dei propri diritti civili e politici.
In effetti non si vede la necessità di rafforzare ulteriormente la posizione della P.A. che è già abbastanza forte di suo.
Scritto da: Antonio | 14 ottobre 2006 a 23:42
E' impossibile, più che difficile, non concordare col prof. Virga in ordine all'esigenza di eliminare ogni residua scoria di "oggettivismo" dal giudizio amministrativo, valorizzandone sino in fondo la natura di processo di (e tra) parti, rispetto al quale il giudice amministrativo non è (più) il giudice della (per la) amministrazione, ma il giudice della funzione amministrativa o del potere amministrativo nel conflitto con interessi e diritti dei cittadini.
Se così non fosse, il dettato costituzionale dell'art. 111 come novellato dalla legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999 rimarrebbe lettera morta (e forse non è sbagliato rammentare che l'art. 111 commi primo e secondo dispone che: "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.").
Ma a ben guardare già l'art. 103 della Costituzione chiarisce che Consiglio di Stato e altri organi di giustizia amministrativa (cioé i T.A.R.) hanno giurisdizione "...per la tutela nei confronti della Pubblica Amministrazione".
Perché, allora, la concezione del giudizio amministrativo quale espressivo di una giurisdizione di diritto obiettivo tarda a tramontare?
Al di là delle origini storiche della giustizia amministrativa, rimangono nodi ordinamentali irrisolti, e tra di essi sono centrali quello della commistione di funzioni consultive (estese anche a taluni atti normativi) e giurisdizionali in capo al Consiglio di Stato, organo di vertice della giurisdizione amministrativa, e la tradizione "vivente" di inesausta contiguità tra consiglieri di Stato e governo, attraverso la presenza nei gabinetti ed uffici legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri.
Risolvere e sciogliere questo nodo (il tentativo della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali fallì proprio sul terreno dei principi costituzionali della giurisdizione) dovrebbe essere imprescindibile per un Governo, per altri aspetti, così attento ad assicurare al giudice (ordinario) una "terzietà" al di sopra di ogni sospetto, se non con la franca separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, con un maxiemendamento che circonda di concorsi, spostamenti di sede, limiti minimi di legittimazione, il passaggio tra funzioni requirenti e giudicanti; ma poi così poco attento alla terzietà del giudice amministrativo da obliterare i principi contenuti in una legge dello Stato (che individuava nell'obiettivo programmatico dell'unificazione dei ruoli della magistratura amministrativa, con tutte le ricadute ordinamentali che esso comportava, uno strumento per un riassetto effettivo e non transitorio, atteso da decenni, almeno da quando la solitaria "signoria" del Consiglio di Stato -di certo non contrastata dalle Giunte provinciali amministrative- ha dovuto cedere il passo all'attuazione dell'art. 125 della Costituzione, con l'istituzione dei T.A.R.).
E invece no, perché un'appendice del maxiemendamento, dietro la foglia di fico della meritocrazia, pretende di modificare gli equilibri faticosamente raggiunti con la legge n. 186 del 1982, modificando le quote di accesso per anzianità al Consiglio di Stato a vantaggio di quelle riservate al concorso diretto.
Insomma, qui, come per i giudici ordinari, nulla conta l'esperienza "sul campo", la professionalità dimostrata, e valutata sulla base della produttività e della qualità del lavoro giurisdizionale, oltre che dell'esperienza e dell'equilibrio desumibili dal concreto esercizio della funzione, mentre assume rilievo preponderante quella del tutto presunta che dovrebbe desumersi da una preparazione teorica (e quindi libresca) o dalla quantità e qualità di lavori scientifici e parascientifici che attengono semmai al profilo della cultura giuridica generale e specifica ma di per sé non dimostrano l'idoneità allo svolgimento di delicate funzioni giurisdizionali, ma semmai l'attitudine a ruoli di consulenza istituzionale e personale.
Non si tratta di piccole "beghe" interne all'eterno "conflitto di classe" tra magistrati dei T.A.R. e consiglieri di Stato, ma di un approccio ai problemi della giurisdizione amministrativa dimentico di quelli strategici (come coniugarne la dimensione di giustizia "di massa" con la peculiare "qualità" e il rilievo "strategico" delle sue sentenze) e attento invece, una volta di più, a microinteressi corporativi (che riguardano una componente largamente minoritaria della categoria), miope, del tutto insensibile al problema della costruzione di un ordinamento della giurisdizione amministrativa all'altezza dei tempi, del principio costituzionale del giusto processo, delle "sfide" di un'amministrazione in continua evoluzione nel mondo "glocalizzato" in cui la funzione giurisdizionale amministrativa deve misurarsi, come ho scritto in altra sede, col duplice processo "ascendente" e "discendente" della sovranità e del potere amministrativo, tra dimensione comunitaria e dimensione del regionalismo rafforzato (o se si ritiene del federalismo).
Se poi questi conati corporativi, attenti solo agli equilibri interni al Consiglio di Stato, alla eternizzazione della supremazia dei consiglieri da concorso, e tra di essi dell'elite (pensante davvero?!?)che ne costituisce la "mente" "politica", trovano attenzione e sponda in un Governo una volta di più "assistito" da tanti e troppi consiglieri interessati e reso perciò a sua volta miope, non pare che quella trasformazione evocata dal prof. Virga possa avere corso effettivo e che il giudice amministrativo possa diventare qualcosa di più e di altro che il giudice della (per la) amministrazione, con buona pace dei principi costituzionali, e sopratutto degli interessi del Paese (o con espressione più moderna della società civile).
Leonardo Spagnoletti
Scritto da: Leonardo Spagnoletti | 14 ottobre 2006 a 23:43
Il giudice non deve preoccuparsi dell'interesse pubblico, se non quando una legge gli impone di valutarlo con particolare attenzione in certi campi (si vedano le norme sulla concessione delle "sospensive" nei lavori pubblici relativi alle c.d. opere di interesse strategico).
Mi sembra, invece, scandaloso questo argomentare tipicamente italiano, in cui ci si inventa un "balocco" (l'interesse legittimo), magari in un momento in cui il balocco è necessario, ma poi, quando si cresce, ci si continua a trastullare. Fuor di metafora, l'interesse legittimo continua ad essere un fattore dirompente, specie in materia di giurisdizione.
Sono un avvocato e le mie vittorie più grandi le ho ottenute con il difetto di giurisdizione.
Da cittadino, però, fatico a comprendere perchè dopo 10 anni di causa si debba arrivare a concludere, con argomentazioni sofistiche, che il giudice adito non aveva giurisdizione.
Sottolineo, ad esempio, la sentenza del Tar Lazio sez. I bis del 19.2.20003 (si Italia Oggi del 13.3.2003) in cui grazie ad argomentazioni sull'interesse legittimo, si sposta la giurisdizione dal giudice amministrativo al giudice ordinario in materia di oepre pubbliche. Ritengo utile percorrere con coraggio la distinzione per blocchi di materie dando al giudice amministrativo, la decisione sull'intero blocco, a prescindere dall'esistenza di interessi o diritti.
Si otterrà anche una maggiore specializzazioine e sensibilità del giudice, che tratta dalla nascita alla morte un certo rapporto giuridico. Ritengo che le distinzionee tra interessi e diritti debba essere fatta solo dal legislatore, che nel formulare la norma in in certo modo abbia chiaramente scritto a chi spetta la giurisdizione, oppure se l'interesse pubblico abbia un peso maggiore, in determinati casi.
Parma,13.3.2003
Roberto Ollari
Scritto da: Roberto Ollari | 14 ottobre 2006 a 23:45
Concordo con l'opinione di Giovanni Virga, soprattutto quando si riferisce alla c.d. "dequotazione" dei vizi formali da parte di un certo orientamento giurisprduenziale.
In tal senso mi pare debba indurre ad una approfondita riflessione la previsione di cui all'art. 4, comma 2°, del d.d.l. di riforma della l. 241/90 ove prevede che "non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, quando il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato". Com'è noto, il contenuto del provvedimento è dato dalla sua parte dispositiva, che rappresenta la manifestazione tangibile della potestà decisionale dell'amministrazione.
Affidare al Giudice amministrativo il compito di verificare se altro avrebbe potuto essere il contenuto del provvedimento equivale, a mio avviso, ad affidare al Magistrato un compito che esorbita di gran lunga dai limiti del sindacato ordinario di legittimità, commettendoglisi, in sostanza, di valutare la sussistenza e la praticabilità di alternative decisionali ulteriori: di intrudersi, cioè, nella pate più intima della valutazione discrezionale.
L'escludere l'annullabilità del provvedimento in tali casi, poi, limita ingiustamente i diritti dei cittadini in punto di pretesa al risarcimento dei danni, che ben possono essere stati arrecati da un provvedimento formalmente illegittimo, e che quindi debbono a buon diritto essere qualificati anch'essi come ingiusti, e quindi pienamente risarcibili.
L'art. 2043 c.c. non distingue tra ingiustizia formale e sostanziale, e la previsione del d.d.l. mi pare tenda ad introdurre una franchigia in favore dell'amministrazione pubblica difficilmente giustificabile, sia in punto di razionalità che di parità di trattamento di medesime situazioni giuridiche soggettive.
Scritto da: Nino Paolantonio | 14 ottobre 2006 a 23:46
La tematica del "giusto processo", opportunamente toccata da L. Spagnoletti, chiama in causa il giudice amministrativo sotto molteplici profili; segnatamente sotto il profilo dell'armamentario istruttorio (si pensi che la testimonianza è oggi ipotizzabile soltanto nella giurisdizone esclusiva, e comunque è assai raramente chiesta ed ammessa: ma quanto sarebbe utile la testimonianza in giudizio del responsabile del procedimento?) e sotto il profilo organizzativo (aumento degli organici finalizzato ad assicurare la "ragionevole durata" del processo; netta cesura tra funzione consultiva e funzione giurisdizionale; limiti alla permanenza dei magistrati presso un medesimo TAR; rivisitazione definitiva della regola afferente alla nomina governativa dei consiglieri di Stato in funzione della c.d. unicità di accesso).
Anche i poteri decisori del giudice attendono una più limpida definizione dopo la legge 205/2000 (penso soprattutto all'istituto della reintegrazione in forma specifica, che deve trovare un non agevole punto di saldatura con l'esigenza di rispetto del potere discrezionale; ed ovviamente alla regola della pregiudizialità tra annullamento dell'atto e risarcimento del danno, che rischia talora di essere eretta a baluardo dei vecchi privilegi amministrativi coperti dalla "convalescenza" del provvedimento non impugnato).
Si tratta di problemi di indubbia gravità, a tutti noti, rispetto ai quali il legislatore non sembra aver adottato una organica visione riformista. E molti altri se ne potrebbero menzionare.
Mi pare tuttavia che nell'insieme, considerato il difficile periodo di transizione in cui il plesso giurisdizionale amministrativo si trova oggi ad operare, ad esso non possa muoversi il rimprovero di abdicare al proprio compito di tutela del cittadino.
Di fronte alle istanze degli avvocati, che chiedono loro - a volte smaccatamente - di "amministrare", ed alle resistenze degli apparati pubblici, che viceversa da loro pretendono atteggiamenti di self-restraint, i (pochi) giudici amministrativi rivestono un ruolo delicato, che postula equilibrio soprattutto quando le regole processuali non sono chiare; piuttosto, mi sembra che il coraggio faccia difetto al legislatore, visibilmente restio a ripudiare quell'approccio "oggettivistico" che a tratti ancora affiora dalle maglie della normativa e della pratica processuale.
Scritto da: Stefano Tarullo | 14 ottobre 2006 a 23:47
Colgo l'occasione di questo dibattito per esprimere qualche perplessità sul reclutamento degli uditori giudiziari per i Tribunali amministrativi regionali, così come indicato dal Prof. Virga. Personalmente ritengo che l'attuale forma di reclutamento (concorso di 2^ grado), quasi identica a quella per magistrato della Corte dei Conti e ad Avvocato dello Stato, cui possono partecipare funzionari direttivi della p.a., magistrati ordinari, avvocati del libero foro, sia sufficiente a garantire un valido serbatoio di aspiranti alle funzioni di giudice amministrativo. Il problema, semmai, dello scarso reclutamento di magistrati amministrativi negli ultimi concorsi andrebbe cercato altrove. Infatti, sulla rivista, leggendo il discorso di apertura dell'anno giudiziario del Tar Puglia, emergono dei dubbi sui criteri di correzione delle prove do concorso, visto che il Presidente di quel Tar non riesce a comprendere come sia possibile che candidati (magistrati ordinari, avvocati e funzionari con anni di esperienza)non riescono a superare le prove scritte. A volte leggendo i temi assegnati ai concorsi mi viene il dubbio che anche il famoso enigmista Bartezzaghi non sarebbe riuscito a fare di meglio!
Probabilmente la radice del problema, anche se personalmente non appartengo alla magistratuta amministrativa, vada ricercata, come ben messo in evidenza da Spagnoletti, nel fatto che i Tar e il Consiglio di Stato sono due organismi distinti e separati nelle carriere, negli stipendi etc...
Probabilmente la soluzione di creare un'unica magistratura amministrativa di I e di II grado, risolverebbe i problemi segnalati dal Prof. Virga, ma questo appartiene alla politica, dove, spesso, il buon senso non trova ascolto.
Scritto da: Massimo Perin | 14 ottobre 2006 a 23:48